BARBANIA

“Il modo più semplice per ammettere di non conoscerla  è  sbagliarne il nome: si dice Barbanìa, con l’accento sull’ultima sillaba, per chi vuole proprio parlare italiano oppure Barbanià rigorosamente alla francese per chi ci vive. E non si può dire che siano tanti: il giusto, quanto basta per riempire la Piazza Grande. Sì e no milleseicento. Ma Barbania non è un paese spopolato, anzi: il numero degli abitanti è rimasto più o meno sempre lo stesso, dal secolo dei comuni in poi.

Sì, perché questo è stato un Libero Comune: lo si vede dall’antica torre -il ciocher, simbolo del paese-, dalla rete viaria, dall’intrecciarsi dei vicoli, dalle tradizioni. Prima ancora, era stato Romano, e risalendo alle radici, celtico. Eredità, quest’ultima, che è presente già del nome (si dice significhi “in mezzo ai fiumi”, Fandaglia e Malone) e che diviene evidente nel momento della festa patronale, San Giuliano. Nel suo antichissimo rituale si fondono devozione Cattolica, orgoglio comunale e simboli “barbari”:  nei giorni della festa (religiosa), che inizia l’ultima domenica di agosto, sulle alabarde e spade dei componenti della  Abbadia, l’antico corpo di difesa del paese (ecco il richiamo all’età comunale) vengono infatti infilzati dei pani che hanno la forma del gallo e del sole (ascendenze celtiche).  Chi non la conosceva, è rimasto affascinato da questa interessante e profonda compenetrazione di sacro e profano.
Ma anche dalle chiese vengono voci diverse: si va dal romanico essenziale del dodicesimo secolo, al barocco piemontese del diciottesimo, alla grazia campagnola che non ha un’età precisa e sa sempre rinnovarsi.
Tutto questo, in un luogo molto particolare. Qui, la montagna ha allungato sul piano un sottile dito di terra, regalando al paese quella posizione che si può definire a balcone: Barbania si affaccia sul Canavese, che è di un verde sereno,  familiare. Meno industrializzato della Brianza, meno selvaggio della Maremma, per intenderci. Nell’affacciarsi, dalle spalle alle Alpi. Tutto il resto, che inizia qualche centinaio di metri più avanti, si chiama già Pianura Padana. E Torino? Qualcuno la vede dal terrazzo, laggiù in fondo. Abbastanza vicina per essere a portata di mano, abbastanza lontana per non sentirne troppo il fiato. Dicono sia l’ideale. È vivace, Barbania. Bernardino Drovetti, la cui collezione diede inizio al Museo Egizio di Torino veniva di qui. Oggi,  i suoi compaesani sono, come lui, curiosi e spesso appassionati. Organizzano mostre, concerti, serate di prosa. Viaggiano.  E, come vedete, non rinunciano mai a parlare di quell’angolo di Canavese da cui provengono.”.
Giorgio Seita per Gruppo Culturale Barbaniese